Ogni oggetto un viaggio. Marmi redivivi

Nei muri dei palazzi veneziani e nelle sale dei musei rimangono molte riconoscibili tracce del reimpiego di materiali archeologici provenienti dal Levante ellenico.

È il caso di due stele interstatali cretesi, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Venezia. La prima con trattati di alleanza tra le città stato di Gòrtyna, Hieràpytna e Prìansos è del 205 a.C. circa e fu scoperta nel 1850 durante lavori edilizi in una proprietà privata presso il ponte di Rialto (Insc. Cret. IV, 1950, n. 174). Recuperata dalle murature della Basilica di San Marco in occasione di un restauro nel 1882, la seconda con trattato di alleanza tra Lato e Olus si data alla fine del II secolo a.C. (Insc. Cret. I, 16, n. 5).

Hieràpytna compare anche in una terza stele, trovata a fine Settecento nella casa del canonico Quirini a Portogruaro (Venezia), dove fungeva da davanzale di finestra. Si tratta della parte inferiore di una stele scritta su entrambi i lati, di poco posteriore al 205 a.C. Presenta su un lato un trattato di alleanza tra Hieràpytna e Rodi, sull’altro lato due testi distinti: il primo riporta un patto tra Hieràpytna e Lyttos, il secondo tra Hieràpytna e Magnesia (Inscr. Cret. III, 3, nn. 3 a-c).

Tra gli esempi di reimpieghi di antichità ancora in opera possiamo ricordare, invece, una stele sepolcrale attica del I secolo a.C. murata all’esterno di casa Weber a S. Canciano. La scena è abbastanza comune: al di sotto di un arco sorretto da due pilastri stanno una donna seduta sopra uno sgabello e un fanciullo che tende la mano destra in un gesto di saluto. Il piccolo monumento funerario in marmo pentelico apparteneva a una donna originaria di Amisos, nel Ponto. Sulla medesima parete sono murati una seconda stele funeraria con scena di banchetto funebre e due altri frammenti ad alto rilievo.

Più antico è l’altare di provenienza cicladica riutilizzato intorno al 1490-1500 nella facciata di palazzo Mastelli, detto “del cammello”, a Cannaregio. L’edificio in stile composito, rinascimentale e gotico, nei vari prospetti presenta statue, rilievi ed elementi architettonici di reimpiego. All’estremità orientale del primo piano spicca un altare cilindrico in marmo decorato con bucrani e ghirlande. Si tratta di un manufatto greco, di un tipo ben documentato dall’epoca tardo-ellenistica soprattutto nelle isole dell’Egeo e sulle coste dell’Asia Minore. L’archeologo Luigi Sperti lo ha datato alla fine del II secolo a.C. e ipotizzato una provenienza da Delo, sulla base dell’analisi stilistica e tipologica.

Dalla medesima isola delle Cicladi sono arrivati a Venezia altri due altari simili, conservati al Museo Archeologico. Uno di essi, una volta giunto a Venezia, fu riutilizzato come sostegno del fonte battesimale nella chiesa di S. Salvatore a Murano. Entrò poi in museo nel 1884. Una cavità profonda sulla faccia superiore, forse per raccogliere le ceneri del defunto, ha fatto ipotizzare un suo originario uso come altare funerario.

Una simile sorte conobbe un’ara sepolcrale cilindrica, donata al museo da Pietro Pisani Moretta, che a metà del Settecento si trovava nella chiesa di Sant’Andrea ad Atene. L’opera è adorna di festoni di foglie, fiori e frutti, tenuti insieme da nastri e sorretti da bucrani. Un’iscrizione ricorda il nome del defunto: Elio Demetrio del demo di Chollidai. Lo stile del rilievo e i caratteri dell’iscrizione fanno datare il monumento alla prima metà del II secolo d.C.

Un secondo altare cilindrico a bucrani e ghirlande, del II secolo d.C., presenta un’iscrizione frammentaria che rimanda al medesimo demo ateniese. Già nella villa dei Pisani di Santo Stefano a Strà, l’altare fu trasformato in epoca imprecisata in un pozzo. Sul manufatto restano tracce evidenti del suo uso come tale.

Quest’ultimo tipo di reimpiego è affascinante perché ha a che fare con un’infrastruttura per lungo tempo vitale a Venezia, città priva di acqua dolce: i pozzi. La quasi totalità delle più vecchie vere da pozzo veneziane è frutto della rilavorazione di basi di statua, urne cinerarie, altari votivi o funerari, capitelli e rocchi di colonna antichi. Il cortile del Museo Archeologico, oltre all’altare da villa Pisani, ospita anche due vere da pozzo ottenute da una porzione di colonna scanalata e da un superbo capitello corinzio-asiatico del III secolo d.C., che il pittore fiammingo Giovanni Grevembroch raffigurò in un acquerello, quando nel Settecento il manufatto era ancora in uso.

 

 

In un suo recente saggio, Salvatore Settis ha affrontato il tema del riuso come nuova vita dei marmi reimpiegati o «marmi redivivi» (rediviva saxa), spiegando come «decisiva nella narrazione di ogni riuso è la soglia fisica e temporale che l’oggetto riciclato varca per insediarsi nel nuovo contesto». Si intuisce facilmente il significato della seconda: il tempo intercorso dal primo uso alla data del riciclo. Quanto alla prima, la distanza tra il luogo di origine e quello del riuso, aggiungiamo che essa non può che avere un significato particolare per il Museo Archeologico di Venezia, dove ogni oggetto racconta un viaggio (e spesso anche più di uno).

MDP

Per citazioni e approfondimenti:

F. Ongania, Raccolta delle vere da pozzo in Venezia, vol. II, Venezia 1889; M. Guarducci, Le iscrizioni greche di Venezia, in “Rivista del R. Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte” IX, fasc. I-III, 1942, pp. 7-53; L. Sperti, Sul reimpiego di scultura antica a Venezia: l’altare di Palazzo Mastelli, in “Rivista di Archeologia” 20, 1996, pp. 119-138; S. Settis, Short Circuits: When (Art) History Collapses, in Recycling Beauty, a cura di S. Settis, A. Anguissola, Milano 2022, pp. 488-495.

 

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