Ogni oggetto un viaggio. Le rotte dei marmi
La necessità di procurare materiale da costruzione fu connaturata alla nascita stessa di Venezia. La città non sorgeva su un precedente insediamento antico. Nata dall’acqua e protesa sul mare con un entroterra ridotto, almeno fino all’espansione verso ovest negli attuali Veneto e Lombardia, era pressoché priva di fonti di approvvigionamento vicine e impossibilitata ad accedere, come facevano altri centri urbani italiani, a quell’inesauribile emporio di marmi che fu Roma. La febbrile attività edilizia che l’animò nel tardo medioevo implicava un gran bisogno di materiale da costruzione e una peculiarità veneziana fu quindi quella di far arrivare marmi dall’Oriente mediterraneo.
L’accenno all’importazione di «nobili pietre marmoree» divenne un topos delle cronache del XIV e XV secolo. I marmi più rari erano destinati alla basilica di San Marco, per la quale fonti coeve testimoniano il ricorso a spogli condotti in città vicine fin dalla prima fase di costruzione. Il testamento del doge Giustiniano Partecipazio, risalente al IX secolo, per la fabbrica marciana disponeva l’uso di pietre da Equilum (l’attuale Jesolo).
Antiche pietre iscritte e non, in parte oggi disperse, furono trasportate in laguna dalle rovine romane di due centri costieri entrati entrambi precocemente nell’orbita politica veneziana: Altino da lungo tempo in abbandono e, in minor misura, Aquileia che conobbe nel Duecento una rapida decadenza.
Venezia si volse dunque al mare, guardando prima ai centri costieri vicini, poi ai centri adriatici posti lungo le rotte mercantili verso il Levante, per esempio dell’Istria e della Puglia da dove arrivarono alcuni dei capitelli di reimpiego della chiesa di San Giacomo a Rialto, databile alla seconda metà dell’XI secolo. E si volse a Oriente per ottenere marmi pregiati, bianchi e colorati.
L’importazione di questi ultimi rispondeva a necessità pratiche e soddisfaceva il gusto per il colore dell’architettura veneziana, ma sottintendeva anche altre motivazioni. In quanto beni di remota provenienza e quindi costosi, i marmi orientali dovettero essere considerati rari, preziosi e perciò «degni di essere esibiti» in «un immenso sfoggio di ricchezza», reso possibile dall’intensità e ampiezza dei traffici marittimi della Serenissima.
Sono noti, anzi famigerati, i fatti della Quarta Crociata nel 1204 e dei numerosi saccheggi di antichità bizantine perpetrati a Costantinopoli dai veneziani. Alcuni rari documenti testimoniano inoltre della spasmodica ricerca in Levante di marmi da reimpiegare. Ad esempio, una lettera del 1309 inviata al mercante Gabriele Dandolo con la pressante richiesta di pietre rare per la basilica di San Marco. Il Collegio, avendo ricevuto dettagliate informazioni, gli ordinava di acquistare a Miconos e in altre isole delle Cicladi marmi per pilastri o semicolonne, bianchi e venati di verde. Si tratta con ogni probabilità di marmo Caristio (o Cipollino Verde), varietà di largo impiego a Venezia sia per colonne sia per rivestimenti.
Intorno al 1433, il mercante Giovanni Gradenigo, incaricato di un trasporto di legname a Creta, fu poi invitato a recarsi a Ierapetra per caricare delle colonne complete di basi, destinate a Venezia. La nave però era troppo leggera e fu costretta a fare tappa ad Alessandria d’Egitto, dove Gradenigo dovette provvedere a sue spese al trasbordo del carico su un’imbarcazione più adatta. La vicenda è nota da una lettera in cui il Consiglio della Serenissima informava Marco Giustinian, Duca di Candia, sulla decisione di rimborsare il mercante. Benché il documento non indichi lo scopo del trasporto, il carattere ufficiale della comunicazione sembra, tuttavia, provare che le colonne fossero destinate a un edificio pubblico, forse l’ala occidentale di Palazzo Ducale, decisa nel 1422 e iniziata due anni più tardi.
Tra i siti di Creta, la città presentava particolari vantaggi per la posizione sul mare e per la ricchezza di rovine. Le due più importanti relazioni del XVI secolo sulle antichità cretesi (La Descrittione dell’isola di Creta (1577) di Francesco Barozzi e la Descrizione di Onorio Belli (1596) ricordavano, infatti, gli scavi intrapresi dai veneziani a Ierapetra allo scopo di «cavar […] molte statue e colonne di marmo».
Ancora una lettera, inviata dal Collegio al Provveditore generale a Candia Giacomo Foscarini, lo incaricava di procurare a Gortina «un buon numero di colonne e altri marmi» per il restauro di Palazzo Ducale, danneggiato dall’incendio del 1574. Gortina fu uno dei siti di Creta antica le cui rovine, nel Cinquecento, furono oggetto di un’intensa attività di scavo da parte dei veneziani.
Grandi quantità di colonne, con una certa preferenza per le colonne in marmo proconnesio, furono trasportate in laguna. La loro massiccia importazione costituisce l’aspetto più appariscente del fenomeno del reimpiego, che assieme al collezionismo antiquario connotò il rapporto di Venezia con i materiali del mondo antico. La basilica di San Marco, dove se ne contano circa 400 tratte dal Levante, è l’esempio più clamoroso, ma non l’unico.
Dalla duecentesca Ca’ da Mosto sul Canal Grande a molti palazzi del XIV – XVI secolo, dalle grandi fabbriche gotiche come la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo all’architettura religiosa del Rinascimento, il riuso di colonne marmoree provenienti dal Mediterraneo orientale caratterizzò per secoli l’edilizia urbana a Venezia.
Le aree geografiche d’importazione furono quindi Costantinopoli (almeno fino alla sconfitta dei Latini ad opera di Michele Paleologo nel 1261), le isole dell’Egeo, Creta e la Grecia continentale. Perentorie erano spesso le indicazioni sui tipi di marmo da prelevare date dalla Repubblica ai suoi capitani da mar: non marmi figurati ma blocchi e colonne di varietà pregiata da usare per elementi architettonici e rivestimenti. Marmi bianchi o colorati di origine greca e anatolica da reimpiegare come tali, ma più spesso da riutilizzare come materia prima per trarne rivestimenti, patere, formelle, lastre pavimentali, fregi, cornici e altri elementi architettonici che tuttora costituiscono in parte l’arredo urbano di Venezia.
MDP
Per citazioni e approfondimenti:
L. Sperti, Sul reimpiego di scultura antica a Venezia: l’altare di Palazzo Mastelli, in “Rivista di Archeologia” 20, 1996, pp. 119-138; L. Sperti, Originali tardoantichi e protobizantini e imitazioni medievali tra i capitelli di San Donato a Murano, in Società e cultura in età tardoantica, a cura di A. Marcone, Firenze 2004, pp. 233-257; L. Sperti, Osservazioni sulla cronologia e la provenienza dei capitelli più antichi reimpiegati nella basilica di San Marco a Venezia, in Archeologia classica e post-classica tra Italia e Mediterraneo, a cura di S. Lusuardi Siena, C. Perassi, F. Sacchi, M. Sannazaro, Milano 2016, pp. 285-296.