Dominae e moda: le dame flavie
Al termine della guerra civile del 68-69 d.C. scoppiata a seguito della morte di Nerone, l’impero passò nelle mani di Vespasiano, che ne ristabilì l’equilibrio perduto con la fine della dinastia Giulio-Claudia: uomo dalle brillanti capacità militari, Vespasiano fu particolarmente attento alle questioni finanziarie e ratificò ufficialmente quelli che erano i poteri dell’imperatore attraverso la Lex de imperio Vespasiani. Tra gli aspetti che però differenziavano la dinastia Flavia dalla precedente, sicuramente si può individuare la minore visibilità delle sue matrone: ad eccezione di Domizia Longina, le altre donne della famiglia hanno in genere assunto un profilo più riservato, tanto da essere definite “invisibili”, forse anche per il poco tempo trascorso ai vertici del potere.
Ciò risulta evidente già con Flavia Domitilla, moglie di Vespasiano e madre di Tito e Domiziano. Le poche informazioni sul suo conto ci vengono fornite da Svetonio, secondo il quale ottenne la cittadinanza romana partendo dallo status latino grazie al padre Flavio Liberale e sarebbe stata amante del cavaliere Statilio Capella, prima di sposare il futuro imperatore; ad ogni modo, sarebbe morta prematuramente prima dell’ascesa al trono di Vespasiano. Tuttavia, al di là delle nuove ipotesi degli studiosi sulle sue origini, Flavia Domitilla indubbiamente ben rappresenta la maggiore mobilità sociale nel corso del I secolo d.C., al pari di Antonia Caenis, amante di Vespasiano prima del matrimonio e dopo la morte della moglie.
Sempre Svetonio, ha sostenuto come il princeps tenesse Caenis in grande considerazione: tra l’altro, la liberta di Antonia Minore, precedentemente avrebbe contribuito a sventare la congiura di Seiano ai danni di Tiberio.
Per quanto riguarda Tito, intorno al 63 d.C. aveva preso in moglie Arrecina Tertulla, figlia di Marco Arrecino Clemente, dalla quale ebbe Giulia Flavia. Dopo circa un anno, la morte di Arrecina convinse Tito a risposarsi con Marcia Furnilla, appartenente ad una famiglia senatoria e nipote di Quinto Marcio Barea Sorano: quando questi cadde in disgrazia presso Nerone, nel 66 d.C. Tito si affrettò a divorziare dalla moglie per evitare coinvolgimenti. Invece, l’unica figlia, Giulia, secondo Cassio Dione avrebbe intrattenuto una relazione con lo zio Domiziano, che aveva sposato Domizia Longina. Quest’ultima era figlia di Gneo Domizio Corbulone e di Longina, parente dei Giulio-Claudî: diventando moglie di Domiziano nel 70 d.C., dopo essere costretta al divorzio, suggellò così un’unione anche politicamente strategica.
Una volta imperatore, Domiziano conferì a Domizia il titolo di Augusta, conservato fino alla morte malgrado alcuni scandali: oltre alla presunta rivalità con la nipote Giulia, infatti, Domizia avrebbe intrattenuto una relazione con il mimo Paride, punita con un temporaneo divorzio dal princeps. Una volta tornata, dimostrò le proprie qualità di matrona romana, ed il suo prestigio personale le permise di superare indenne l’uccisione di Domiziano nel 96 d.C., della quale si sarebbe resa complice. Onorata e rispettata anche dagli imperatori Antonini, Domizia morì tra il 126 ed il 128 d.C., senza però essere divinizzata.
Paradossalmente, la scarsa visibilità delle matrone flavie ha avuto un corrispettivo iconografico totalmente opposto: le loro immagini si caratterizzano infatti per l’appariscenza, specialmente riguardo le acconciature. Un esempio ci arriva proprio da due ritratti della collezione Grimani.
Nel primo, emerge soprattutto la capigliatura alta e a nido d’ape sulla fronte (riprodotta col trapano), che sulla nuca assume una forma ad elica con la crocchia a raccogliere le varie trecce, mentre nel secondo sono presenti dei veri e propri riccioli (anuli) cascanti sulla parte superiore del viso. In entrambi i casi, si tratta di raffigurazioni private, nonostante le ipotesi di attribuzione a donne della famiglia imperiale, che però testimoniano il realismo della ritrattistica dell’epoca: le acconciature riescono a far risaltare la fisionomia dei volti, che trasmette austerità e intensità rendendo più evidente, ad esempio, l’età avanzata del secondo soggetto; l’abilità degli artisti permetteva inoltre di creare per i capelli superfici morbide grazie al volume, ed effetti chiaroscurali.
Nella realtà realizzare tale capigliatura, definita orbis e capace di aumentare la statura femminile, richiedeva una certa esperienza a causa della sua difficoltà, per l’utilizzo di spilli, posticci e reti che la sostenessero, secondo una moda adottata dalle aristocratiche del periodo le cui trasformazioni comunicano anche il susseguirsi delle diverse dinastie. Se pensiamo ai ritratti di Flavia Domitilla, essi legano l’epoca neroniana a quella dei Flavi, vista la presenza di riccioli a disco sulle tempie, la scriminatura centrale e la coda raccolta sul collo; quelli di Giulia Flavia mostrano invece la tipica acconciatura dinastica, con diadema di riccioli sulla fronte e nodo sulla nuca legato da uno spillo.
Progressivamente, le capigliature divennero sempre più voluminose e complesse, simboleggiando lo sfarzo della corte domizianea e forse ispirandosi anche ai ricci delle maschere teatrali. Domizia Longina inizialmente riuscì comunque a distinguersi, sia per la sua personalità, sia per la natura dei suoi capelli che, essendo particolarmente ricci, le permisero acconciature meno cotonate e con più treccine. In seguito avrebbe adottato una pettinatura meno alternativa, ma in età avanzata riuscì anche a influenzare le augustae Antonine con acconciature sviluppate maggiormente in verticale, fungendo così un ruolo da trait d’union non solo politicamente ma anche dal punto di vista stilistico.
Michele Gatto
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