Due teste per l’Artemide di Venezia
Il Museo Archeologico in trasferta
Artemide avanza con passo largo e deciso, vestita di una lunga veste leggera che si apre a ventaglio tra le gambe e di un mantello che scende fino alle ginocchia. Il panneggio elegante segue le linee del corpo; le pieghe si rincorrono a zigzag con grazia decorativa. La dea porta a tracolla quello che resta di una faretra. La testa, dal rigido sorriso arcaico, è un calco in gesso d’inizio Novecento da una statua del Museo Archeologico di Napoli. Un diadema impreziosisce la capigliatura composta, che scende sulle spalle in alcune ciocche sottili.
Sono noti altri tre esemplari di Artemide arcaistica. Questa di Venezia già nel XVI secolo faceva parte della collezione Grimani (Inv. 59). L’Artemide di Napoli fu trovata nel 1760 in una casa di Pompei. La terza fu dissotterrata nel 1880 a Castiglione della Pescaia tra i resti di una villa romana e dal 2001 è esposta al Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto. Nello stesso anno, i Carabinieri recuperarono una quarta e ultima statua, oggi custodita al Museo Nazionale Romano. Le sculture, forse uscite da una stessa bottega di Roma, si datano alla seconda metà del I secolo a.C. Hanno in comune l’iconografia: la figura muove in avanti un passo, tenendo una mano protesa forse a reggere l’arco mentre l’altra doveva scostare dal corpo la veste. Alcuni studiosi pensano che esse siano copie romane di un originale in bronzo del 500-480 a.C., presumibilmente la Diana di Segesta menzionata nelle orazioni di Cicerone contro Verre. Altri le ritengono invece raffinate creazioni dell’arte romana d’indirizzo arcaizzante. L’esistenza di quattro esemplari superstiti è il segno della fortuna del soggetto. Lo stile ispirato all’arte greca del periodo arcaico trovò grande favore a Roma durante la restaurazione religiosa di Augusto. Le forme arcaizzanti ebbero grande popolarità anche in età imperiale, usate per le statue degli dei quando si volevano evidenziare gli aspetti più austeri e antichi del loro culto.
Interessante è la storia del restauro e de-restauro della statua di Venezia, già nella collezione Grimani e in museo dalla fine del Cinquecento. Giunta acefala, probabilmente da Roma, fu affidata alle cure di uno scultore del tempo per essere completata. L’intervento rinascimentale integrò infatti non solo il capo, ma anche l’avambraccio destro e parte della faretra (perduti), la punta del piede sinistro e il lembo di veste che lo ricopre nonché il plinto modanato attorno alla base antica (ancora in opera). La testa, di nuovo esposta in museo in questi giorni, è dunque opera di un artista-restauratore del XVI secolo. Modellata su un tipo Afrodite, è caratterizzata da una capigliatura a scriminatura centrale e due bande di capelli riportate sopra il capo e trattenute da una benda. Una seconda benda ne circonda anche la sommità mentre due ricci scendono su ciascun lato del collo. Alcuni particolari come la piccola bocca, la fossetta sul mento, le pupille incise e rivolte verso l’alto denunciano la sua modernità. Si tratta di caratteristiche riscontrabili anche nelle teste di restauro che completano alcune altre statue del Museo Archeologico, già della raccolta Grimani, ad esempio quella di Leda (Inv. 30) e della cd. Cleopatra (Inv. 53), quest’ultima attribuita alla bottega dei Lombardo.
A inizio Novecento, durante il riordinamento del Regio Museo Archeologico di Venezia, la cui sezione classica fu inaugurata il 25 aprile 1909, Gherardo Ghirardini e Giuseppe Pellegrini ritennero opportuno ripristinare la corretta iconografia della scultura, sostituendone la testa con un calco tratto dall’Artemide di Napoli. A Palazzo Ducale, che ospitava la collezione statuaria organizzata secondo cronologia e stile, la piccola Diana era infatti il fulcro della prima sala del percorso di visita, che da lei prendeva nome ed era decorata alle pareti con rilievi attici del V e IV secolo a.C. La sostituzione della testa rinascimentale (Inv. 381) col gesso moderno, come si disse «a vantaggio di coloro che visiteranno il museo di Palazzo Ducale per studiarvi l’arte antica», non fu il solo accorgimento espositivo riservato alla scultura. Essa fu infatti collocata sopra una base girevole per agevolarne la visione da ogni lato.
In occasione della mostra #Artemide: una, nessuna, centomila al Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto, la statua di Venezia è stata sottoposta a un attento restauro da parte di Patrizia Toson. Esso non solo ha ridato leggibilità alla lavorazione delle superfici marmoree, ora vibranti di luce – i colori originari che decoravano la veste e il volto sono, purtroppo, irrimediabilmente perduti – ma anche restituito volume e dettaglio al modellato dell’ottimo calco novecentesco, assai appiattito da un precedente intervento ormai deteriorato.
Particolare curioso: la Gipsoteca del Museo di Scienze archeologiche ed Arte dell’Università di Padova – presso la quale Gherardo Ghirardini, Soprintendente alle Antichità del Veneto, insegnò Archeologia dal 1899 al 1907 – espone un calco, anch’esso di inizio Novecento, dell’Artemide di Venezia ancora completa della sua testa rinascimentale. Realizzato dunque prima dell’operazione di de-restauro, riteniamo che il gesso padovano possa essere stato funzionale allo studio preliminare della scultura da parte degli archeologi che decisero di restituirle l’originario aspetto arcaico, «appannato» dalla testa moderna.
MDP