Storie di Piazza San Marco
Di reimpieghi e antiche iscrizioni
«Per ogni dove mescolaronsi, precipitando, le colonne marmoree della cella campanaria, assieme ai cornicioni, alle sculture dell’attico e alla pesante armatura della cuspide. I massi ristettero all’angolo della Basilica, ed attutì il colpo la colonna che fu svelta; squarciarono, verso mezzogiorno, la testata della Libreria marciana». Così descriveva la scena davanti ai suoi occhi l’archeologo Giacomo Boni, accorso sul luogo del disastro due giorni dopo quel tragico 14 luglio 1902. Il campanile di San Marco era crollato di schianto, lasciando il posto a un cumulo di macerie.
Oggi Storie di Piazza San Marco vi parlerà di antiche iscrizioni e del loro reimpiego.
Pochi anni dopo quella tremenda catastrofe, nel maggio 1905, durante i lavori di consolidamento delle fondazioni del “paron de casa”, necessari alla sua ricostruzione, si scoprì una stele funeraria di epoca romana, inserita nel quarto gradone del basamento del campanile. Ricavata da un blocco di calcare di Verona, la lapide era spezzata in basso; restavano solo nove righe di testo. L’iscrizione, ora conservata nel chiostro di S. Apollonia, all’inizio del I sec. d.C. segnava il luogo di sepoltura di Lucio Ancario, figlio di Caio, cittadino romano iscritto alla tribù Romilia, che aveva ricoperto importanti cariche militari, civili e religiose nella colonia di Ateste.
Gherardo Ghirardini, Soprintendente alle antichità del Veneto, studiò il reperto, considerando straordinaria questa scoperta archeologica. Fino ad allora, infatti, si era ritenuto che le pietre e i mattoni antichi reimpiegati come materiale edilizio a Venezia provenissero dalle città prossime all’estuario, come Altino, Oderzo, Aquileia, e dalle coste della Dalmazia.
A sorpresa l’iscrizione di Ancario provava invece che i veneziani, in un’epoca assai precoce come quella della costruzione del primo campanile di San Marco alla fine del X secolo, si erano procurati materiali antichi da reimpiegare nell’edilizia anche dall’interno della terraferma veneta. Ghirardini ipotizzò che la pietra sepolcrale fosse arrivata in laguna da Este facendo lo stesso percorso della trachite dei Colli Euganei, largamente utilizzata nelle stesse fondazioni del campanile. Concludeva poi il suo saggio osservando che l’iscrizione e il nome di Ancario sarebbero scomparsi per sempre, non fosse stato per la rovina del campanile di San Marco.
La singolarità del reperto stava nel suo luogo di provenienza, non certo nel fatto in sé del suo riutilizzo come materiale da costruzione. Venezia, infatti, pur non sorgendo su un precedente insediamento antico, come altri centri urbani italiani di epoca medievale e moderna, vanta, assieme alle isole della sua laguna, una considerevole presenza di manufatti antichi riutilizzati nel corso dei secoli. Si è calcolato che i soli reimpieghi epigrafici nell’area della laguna veneta superino le 150 unità.
Queste iscrizioni, molte delle quali oggi disperse, in gran parte erano state usate nella costruzione – invisibili come la stele del magistrato atestino oppure reimpiegate a vista preferibilmente lungo i canali – di edifici e infrastrutture di diverso tipo: rive, moli, ponti, pozzi.
La quasi totalità delle più vecchie vere da pozzo veneziane è frutto della rilavorazione di basi di statua, rocchi di colonna, altari votivi o funerari, urne cinerarie antichi. È il caso, per esempio, di un’urna cineraria a cassetta, conservata nel cortile del Museo Archeologico Nazionale di Venezia. Il manufatto, in calcare d’Aurisina, reimpiegato come vera da pozzo già nella seconda metà del Quattrocento presso San Trovaso, reca due iscrizioni in una sorta di dialogo a distanza tra donne.
Sul lato frontale è ricordata la liberta Terenzia Hicete, che nel suo testamento ordinò l’esecuzione del monumento funerario per sé, la madre, il padre e la sorella. Nell’iscrizione, da datare entro la prima metà del I sec. d.C., compare un gentilizio molto diffuso nel mondo romano e ad Altino; il cognome della defunta è forse invece di origine greca. Altrettanto interessante è la seconda, più recente, iscrizione incisa su una delle facce laterali. Il testo documenta il trasferimento della vera da pozzo al monastero delle benedettine di Ognissanti, avvenuto nel 1518 all’epoca della badessa Pacifica Barbarigo, «in tempo de madre superiora Pacifica abbatesa». Insomma, da Terenzia a Pacifica.
Pure i sarcofagi antichi furono spesso riutilizzati per accogliere nuove inumazioni. La pratica, già attestata in epoca tardo romana, proseguì nel medioevo e, in territorio veneziano, anche oltre. A questo proposito ricordiamo un grande sarcofago in pietra d’Istria, oggi al Museo Archeologico, che testimonia di una rara storia di amore coniugale, anzi due. Già presente a Pola nella chiesa di San Mena nella prima metà del Quattrocento, il monumento fu trasferito a Venezia e reimpiegato intorno al 1563 nella chiesa di San Polo come sepoltura di Francesco Soranzo e Chiara Cappello.
Il nuovo coperchio fatto realizzare in quell’occasione recava un epitaffio in cui la moglie veniva definita «amantissima». La coppia di sposi veneziani fu però preceduta nel medesimo sepolcro dai coniugi Marco Aurelio Eutyches e Aurelia Rufena, che vi riposavano insieme intorno alla metà del III sec. d.C. dopo aver vissuto a lungo «sine ulla querella». C’è da pensare che riutilizzo e seconda iscrizione non siano affatto casuali.
Potrete approfondire queste e altre storie il prossimo 28 luglio, quando nell’ambito del ciclo di incontri informali nel cortile storico del Museo Archeologico Nazionale di Venezia, intitolato Storie di Piazza San Marco, daremo il benvenuto a Lorenzo Calvelli dell’Università Ca’ Foscari. Il professore parlerà di reimpieghi epigrafici a Venezia e guiderà chi vorrà cimentarsi nella decifrazione delle antiche iscrizioni esposte in cortile.
MDP
Per citazioni e approfondimenti:
G. Boni, Costruzioni e macerie, in Il campanile di San Marco riedificato. Studi, ricerche, relazioni, Venezia 1912, p. 52; L. Calvelli, Il reimpiego epigrafico a Venezia: i materiali provenienti dal campanile di San Marco, in “Antichità Alto Adriatiche” 74, 2013, pp. 179-202; L. Calvelli, Iscrizioni esposte in contesti di reimpiego: l’esempio veneziano, in L’iscrizione esposta, Atti del Convegno Borghesi 2015, a cura di A. Donati, Faenza 2016, pp. 457-490.
Giovedì 28 luglio, ore 10.30
Piazzetta San Marco, 17
L. Calvelli – Dalla Piazza al Museo: reimpieghi di iscrizioni e storytelling epigrafici
Prenotazioni allo 0412967663
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